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Entrai al Secolo dItalia come praticante
giornalista il 29 maggio 1979. Due giorni prima,
era un sabato, stavo assistendo ad una partita
di calcio della nazionale italiana in televisione.
Squillò il telefono: era il vice-direttore
del Secolo Franz Maria DAsaro che, con tono
imperioso, mi invitò a prendere servizio
il lunedì successivo. Feci un salto di
gioia. Mi sembrò di toccare il cielo con
un dito. Le promesse di Giorgio Almirante e di
Nino Tripodi erano state rispettate. Mi presentai
di buon mattino a via Milano. Trovai soltanto
il portiere che, con aria di sufficienza, quasi
infastidito, minformò che fino alle
quattordici non ci sarebbe stato nessuno in redazione.
Cominciamo bene, pensai. Ed il tempo sembrò
non passare mai. Finalmente alle due in punto
mi presentai a DAsaro ed al caporedattore,
Cesare Mantovani: limpatto non fu entusiasmante.
Il primo mi disse che mi sarei dovuto occupare
di cultura; il secondo mi fece capire, senza tanti
giri di parole, che i miei strumenti di lavoro
sarebbero stati le forbici, la colla e, talvolta,
la macchina per scrivere, giusto per legare le
agenzie secondo le esigenze del giornale.
Mi salvò dalla disperazione che stava per
sommergermi un giovane e gentile
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redattore che già conoscevo: Mauro Mazza.
Stilava quotidianamente una noiosa, non certo per suo demerito,
nota politica nella quale infilava tutto quello che Mantovani
gli chiedeva, concludendola con limmancabile pistolotto
finale sulle magnifiche e progressive sorti della Destra italiana
incarnata dal Movimento Sociale Italiano e, alla bisogna, tessendo,
anche quando non ce nera bisogno, le lodi di Giorgio Almirante,
leader maximo ed indiscusso del partito, padre-padrone ma molto
vicino al giornale che amava più di se stesso e che mai,
avrei scoperto in seguito, ai redattori ha fatto mancare lo
stipendio e la sua comprensione quando in qualche rara occasione
il mensile arrivava in ritardo.
Mazza, sottraendomi a Mantovani, mi portò in giro per
la redazione come una sorta di Madonna pellegrina. Non lo ringrazierò
mai abbastanza dellaffetto e del calore che in quella
occasione mi fece sentire in un ambiente che guardava i nuovi
inserimenti come a degli intrusi. Scoprii poi la gentilezza
di Carlo Cozzi, lumanità di Mario Pucci, il sorriso
di Renato Bianda, la generosità di Peppe Leone, la capacità
di amicizia di Adalberto Baldoni e di Nino Capotondi, la genialità
di Giorgio Cirillo, laltruismo di Domenico Campana, lintroversione
di Pino Rigido che nascondeva timidezza ed un cuore grande così,
leccentricità di Walter Gonzales, il distacco,
quasi aristocratico, di Mario Santilli (che ci ha lasciato molto
presto), la forza danimo di Teodoro Buontempo ed il disincanto
di Ernesto Mezzabotta, il rigore di Gianfranco Fini, elegante
nei modi e nelleloquio, dotato di un fiuto politico fuori
dal comune...
In pochi giorni diventai uno di loro, amico di tutti. Come con
tutti quelli che vennero dopo, condivisi speranze e delusioni,
gioie e dolori, soprattutto amicizia e, se posso permettermi,
un forte sentimento di cameratismo: Moffa e Di Lello, Pompei
e Macchi, Gasparri e Storace, Mattei e Urso, Silvia Mastrantonio
e Flavia Perina, Socillo e Iacopini, Gianni Scipione Rossi e
lindimenticabile Aldo Giorleo oltre che amico, maestro
di vita e di giornalismo (augurandomi di non dimenticare nessuno).
Il Secolo non mi era estraneo. Era lì che volevo lavorare,
da giornalista militante, da neofascista orgoglioso della mia
diversità eppure curioso di penetrare nelle esperienze
politico-culturali più distanti, anzi addirittura avverse
alle mie. Arrivavo a via Milano dopo sei anni di intensa collaborazione
gratuita, come usava a quei tempi, alla terza pagina
del quotidiano: non ero del tutto sconosciuto...
Il Secolo d’Italia è stato per noi un rifugio ed una famiglia;
una comunità ed un laboratorio di idee; una trincea ed un avamposto
del quale eravamo orgogliosi; un punto d’incontro per chi non
aveva né parrocchie, né Frattocchie. E lì riuscimmo, senza risentimenti
ma addirittura con gioia, a ricreare ciò che fuori ci veniva
negato: un profondo sentimento di solidarietà che si concretizzava
nella condivisione dell’appartenenza, ma anche, più prosaicamente
e quanto felicemente, nel festeggiare i compleanni di ciascuno,
nel partecipare agli eventi gioiosi e luttuosi che ci riguardavano,
nel celebrare, con pochi soldi ed in trattorie non proprio chic,
il superamento dell’esame di giornalista professionista...
Ora Mauro Mazza ci regala I ragazzi di via Milano. Non eravamo
i ragazzi di nessuno, come qualcuno a Sinistra si è sentito
di qualificarsi. Eravamo soltanto di noi stessi. E con le nostre
anime giocavamo non a borgognoni ed armagnacchi, ma, nell’indifferenza
generale a comprendere ciò che accadeva intorno a noi...
Quanta storia cè nelle pagine che seguono. E quanta
umanità. Mi accorgo adesso di non averne fatto lesegesi
come si conviene scrivendo una prefazione. Ma come potevo? Questo
è un libro di sentimenti e di ricordi che sintrecciano
fino a formare la trama della vita di una generazione. La generazione
che non ha fatto in tempo a perdere la guerra e forse non ha
neppure vinto la pace. Ci sentivamo così al Secolo, tra
la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta.
Sempre in pericolo, sempre giocosamente ostili a tutti coloro
che ci parlavano di futuro.
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Gennaro Malgieri
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Ecco la mitica squadra dei
giornalisti del Secolo dItalia. Da sinistra.
In piedi: il condirettore Franz Maria DAsaro,
Mauro Mazza, Maurizio Gasparri, Francesco Storace,
Bruno Socillo, Claudio Pompei, Luca Montebelli e
Gianni S. Rossi. Accosciati: Pino Rigido, Silvano
Moffa, Gennaro Malgieri, Roberto Iacopini, Gianfranco
Fini e Stefano Mattei. |
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